Guerra di rime, quando i lepini batterono Guccini e Benigni

I poeti in ottava rima giocavano a intrecciare le parole, a concatenarle. Fuori il temporale creava un muro, un grande muro verso l’esterno. La strada era diventata un torrente che correva verso il passo. Il poeta cantava di Pia dei Tolomei, parlava di virtù, di pietà. Incrociava le rime e la memoria cercava di recuperare le rime, di baciarle.
 
Intorno gli uomini, consumati dal sole di un’estate dura di una terra sempre avara, ascoltavano e con gli occhi socchiusi immaginavano broccati, castelli e i merli delle mura di Siena qualche centinaio di chilometri più a nord su quella terra che Raffaele Marchetti aveva definito l’Appennino centrale. Dalla Toscana, al Lazio, con appendici fino al freddo Abruzzo.

 
Pia dei Tolomei, anche Dante la cantava.
 
Ma che terra è questa che canta di Siena quando siamo dentro le montagne che danno su una piana insana, dove anche le olive sono differenti? Guelfi e Ghibellini, destra e sinistra, comunisti e democristiani: mettetela come volete è la storia della gente di queste lande.
 
Benigni aveva provato a battere Ezio Bruni di Artena, ma aveva imbrogliato su una rima, quella finale in “ata”, che rendeva impossibile continuare il canto.
 
Come nelle tenzoni dei cavalieri medievali, la scortesia, il superamento dell’etichetta è prima di tutto offesa per chi la fa.
 
In poesia non ci sono i vili, non ci sono quelli che mischiano le carte, non c’è spazio per i tre cartisti. E’ il mondo delle virtù di Pia dei Tolomei, dello scontro a viso aperto, duro fino al coltello, fino al sangue, ma rispettoso delle regole.
 
E’ il Palio di Siena, dove tutto è ammesso nella corsa, nulla è ammesso fuori dalle regole della corsa stessa. I cavalli del palio non hanno sella, come la poesia in ottava non ha scritto, non ha bisogno dei segni, di mostrarsi o nore esterno, perché o nore è, all’interno. I cavallari dei Lepini, i butteri della piana umida cavalcavano a pelo e battevano Buffalo Bill. Ezio Bruni, pastore di Artena batte il colto Benigni, perché ogni uomo ha il suo punto debole: il toscano ha il gusto della battuta che lo frega.
 
Bruni batte Benigni, come Imperiali di Cisterna battè l’americano della leggenda, Buffalo Bill.
 
Fuori piove e la gara a poesia continua, tra mille sogni e qualche scivolata. Il vino rende il gioco più vivo. Cantano di Ulisse, di Circe, di Polifemo fregato da “nessuno”. Una rima gioca con un’altra, la metrica disegna la musica, diventa musica. E si parla così, in italiano e in ottava fino in Corsica. Dove i pastori andavano.
 
Ma allora questo, quello dei Lepini, non è un modo chiuso, arcaico morto?
 
Maurizio Abbafati, di Lariano, Guccini, modenese volgare, cerca di usar la rima, ma cade come chi prova ad andare a cavallo senza sella.
 
Il poeta di Bologna “una vecchia signora dai fianchi un pò molli” non vince il gioco con la rima. I pastori di Artena, di Segni improvvisano poesie che restano uniche, in un unico suono, dette una sola volta. Come ogni cavalcata al palio è una sola volta, perché la poesia è come questi monti, soli, vuoti e nello stesso tempo pieni e al centro del mondo.
 
Una rapa ha punito Benigni, la metrica Guccini e sui monti che stanno tra Roccamassima e Valmontone, tra secolari e saettoni, nelle giornate chiare si vede il Circeo, Ulisse che sbarca e cerca di difendersi dalla bella Circe e di evitare che i suoi diventino porci, diventino gli ultimi del mondo.
 
Perché in quello spazio che va dalla Toscana ai Lepini è nata la libertà, i comuni gli uomini tutti uguali che in volgare giocavano con le rime: castellani e villani insieme come quando il Palio rende tutti figli della stessa contrada.

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Author: Lidano Grassucci

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